Ricordando
l’unicità perduta dei ragazzi del Bataclan
di Lucia Gaddo Zanovello
C’è in ogni discorso umano un segno di
mistero che distingue una creatura dall’altra, si stabilisce fra le persone una
comunicazione impressa in modo intimo e insondabile, puramente intuitivo. La
poesia ben testimonia di tale delicata ma infrangibile forma di dialogo, come
accade in questa nuova silloge di Bonifacio Vincenzi. Sono esistenze, quelle
dei giovani qui ricordati e celebrati, che si trovarono a essere vittime
inconsapevoli di un manipolo di fanatici spietati al Bataclan di Parigi nel
novembre dello scorso anno e storie individuali, delle quali in qualche modo ci
si deve fare custodi, è necessario per loro, ma anche per chi resta. Bonifacio
Vincenzi, che sente in se stesso la costernazione per tale sciagura, al pari di
Parigi, delle famiglie coinvolte e del mondo intero, ne è pienamente cosciente.
Perché se della morte non ci si
può liberare, ricordare può aiutare ad elaborare il lutto e forse è possibile
trasformarlo,
come la morte, in una nuova nascita.
Questo genere di memoria si chiama amore, e
l’amore rimane, anche in assenza dell'altro, perché la sua presenza non
scompare con il suo non comparire più in questa dimensione.
Si deve continuare a parlare con coloro che
hanno cessato di vivere, per non rischiare di lasciarli svanire e dunque tacere
per sempre; se ci separassimo definitivamente da chi ci è caro, rischieremmo di
farlo morire di nuovo e se è vero, come è vero, che la
morte degli altri ci riguarda sempre, la morte dei ragazzi ci coinvolge e ci
importa anche di più.
“Di quei ragazzi rimane /
l’impazienza di una giovinezza / mai scomparsa.// Per loro e per tutti gli anni
/ che chiederanno conto al tempo / sarà primavera in novembre”, asserisce e
presagisce l’Autore.
Ci sono sofferenze di cui non
riusciamo ad attutire, nel tempo, gli effetti e quando gli altri muoiono, chi
resta deve decidere il senso della propria vita.
Quasi tutto quello che ci sta
intorno rimane fermo dove si trova, senza che noi si possa averne totale coscienza e controllo,
tuttavia ciò che nel presente accade dipende da questo indugiare di ogni cosa
nell’impotere e nell’insufficienza propria dell’umano nei confronti del mondo.
Non è nostra facoltà poter cambiare la maggior parte del reale e ogni morte, compresa
la nostra, è e sarà
una partenza individuale e solitaria verso l’ignoto; per un attimo, forse, si
sentirà disperatamente abbandonato, anche chi è dotato della più solida delle
fedi. La dimensione della sofferenza
non è misurabile, “Sa di vita che se ne va / la muta
sensazione / che sottrae colore che cola / dal dipinto delle ore”, è la
metafora dell’attimo di smarrimento che coglie il poeta e ancora “cadde la vita
innocente per le colpe del mondo / non più nomi, storie e vissuto / ma un
lampeggiare discontinuo / dalle caverne dell’odio”, egli ricorda, tornando agli
interminabili minuti della sparatoria.
In questo caso la morte si è
presentata con la maschera inespressiva dell’apatica indifferenza di chi non sa
distinguere il bene dal male, per l’incontinenza diabolica di invasati
annientatori, demoniaca ferocia attuata da vigliacchi verso tanti fra i propri
simili (ma possono questi umani essere definiti ‘simili’?) così inavvertiti e
indifesi.
Vita e morte hanno i loro ritmi
misteriosi, le loro ragioni, ma “Altra cosa, invece, è andare, / in tempo di
pace, ad un concerto / ed essere ricordati come vittime di guerra.”
È da trascrivere per intero il
brano di pag. 26: “Le vittime sono sempre buone / e se ne vanno spesso senza
salutare./ Certo, a saperlo avrebbero dato un bacio / ai loro bambini, magari
anche detto ti amo per / l’ultima volta a qualcuno. Ma sono / vittime, si
svegliano al mattino e non sanno / neppure che quello è il loro ultimo
risveglio. / Le foto delle vittime sono sempre le più belle, / c’è una liturgia
a cui i loro cari tengono molto,/ mostrano sempre le loro foto dei momenti
felici, / non vogliono che si sappia in giro che anche loro / hanno pianto, che
anche loro sono stati qualche volta / odiosi, sono vittime ormai, non vedranno
più albe / né tramonti, non festeggeranno più nulla. // La morte è come il
fuoco, purifica tutto,/ strappa alla vita e, in cambio, riempie l’assenza / di
momenti felici.”
Quando la morte è intimamente legata all'amore, questo non si estingue
con la morte: “Vivranno / nell’eterno presente / del
grande cuore /della città del mondo.”
E ancora, per intero, citerei
il brano di pag. 32: “Caddero / sotto
il peso dei loro corpi.// Non tremò la terra /né il cordoglio / del mondo
intero / riuscì a varcare / i confini di quell’orrore.// Solo un pensiero
innocente / di bambino / adagiò la loro anima / tra le stelle.” E più avanti
osserva il Poeta: “Altri calendari
segneranno / questo giorno, si sveglieranno / commozioni, rimorsi // e nella
notte un’ombra di luna / coprirà la città e i suoi morti.”
Solo il ricordo opera il miracolo del persistere di questo amore,
impedendo che alle creature passate di là
venga rimosso ogni aggancio col nostro presente; dona eternità il
ricordo, questa è l’unica grazia concessa agli uomini. E a proposito di
Marie Lausch, che “lasciò al mondo la luce eterna di un sorriso”, precisa
l’Autore : “Credono di averti uccisa / non sanno dell’altra vita / non sanno
che vivi /nel sogno dei bambini.”… “Non invecchierai mai / vivrai giovane e
sorridente / negli occhi del mondo// un unico eterno amore / e la certezza di
essere vissuta / senza tradire i sogni.”… “In qualche punto del silenzio /
lontano da qui / qualcosa di te si muove.// Sei nell’ombra della pioggia / che
non bagna.// Chi ti cerca sono le stelle cadenti / dei tuoi desideri, chi ti
cerca è la strada / dove sei passata, le canzoni che nel cuore / hai cantato…”.
Se è vero che il ricordo gradatamente aiuta a raggiungere il fondamento e il sostegno di ciò che siamo, si deve essere anche fermamente consapevoli del bisogno assoluto di Storia che c'è in ciascuno di noi, mentre il fanatismo contemporaneo cerca di distruggere questo bisogno, proprio per distruggere l'uomo in sé.
“Loro sono oltre, noi da questa
/ parte a inseguire giorni sempre / uguali, a credere che il mondo / sia ancora
capace di separare / il bene dal male. Ma è figlio / di tragedie dimenticate
altrove / l’odio che esplode nelle nostre / vite. E se l’amore è solo una
parola / usata male allora nessuno potrà salvarci / dalle nostre colpe
addormentate.// Sappiamo tutto di voi, il passato / è un libro sfogliato da
mani inquiete…”. Sono parole che
invitano, mentre “rimaniamo fermi…a risvegliare sogni che appartennero ad
altri”, a ripercorrere avanti e indietro, ininterrottamente, i libri di Storia,
insieme ai nostri privati compendi, come fossero veri e propri prontuari per
ogni esistenza.
“Siamo ciò che la vita ci
consente di essere / e abiteremo tutti nella stessa assenza” asserisce, ben
consapevole, il Nostro, ma il suo libro ottiene davvero di salvare qualche goccia, qualche scintilla di
speranza, che ci consenta di vivere nonostante tutto, sia pure nell’angoscia,
nell’incertezza, nell’inquietudine del cuore e nella nostalgia di un passato
che non c’è più. Solo così il tempo
offeso dello sdegno, del risentimento e dell’offesa, che è lo stesso del
rimpianto e della nostalgia, ancorato al passato, può riconciliarsi col
presente.
Un libro che ‘fa del bene’, se si lascia
che nel nostro cuore risuonino le voci delle vittime degli attentati del
novembre del 2015 a Parigi, per non permettere mai che sia dimenticata la loro
unicità perduta.
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