domenica 26 luglio 2015

Luca Buonaguidi






La solitudine in movimento nella poesia di Luca Buonaguidi 
di Bonifacio Vincenzi

Il termine sanscrito samādhi denota la mente quando si sia sganciata da tutto ciò che di norma la impegna per scendere nell’intimo e concentrarsi nella propria pura identità. In samādhi la psiche può affermare non più “sono questo” o “sono quello”, ma semplicemente “io sono”, che non determina una perdita ma, al contrario, un rapidissimo accrescimento, perché indica l’essere nella sua massima potenzialità e non più confinato da una denotazione limitativa.
È, chiaramente, un percorso difficile, che ha bisogno di un particolare raccoglimento, in netto contrasto con i ritmi frenetici della nostra cultura occidentale. Un percorso, intendiamoci, per pochi eletti, perché - per dirla con un famosissimo conoscitore delle dottrine esoteriche come Elémire Zolla – “ quando io sono si può lecitamente completare in io sono l’essere, si vive l’esperienza metafisica: le sensazioni del mondo esterno sussistono, ma la mente non le subisce e non le contrasta, nota semplicemente come affiorino e come dileguino, senza intervenire con sentimenti e giudizi.”
L’India, allora, appare la meta più ambita da raggiungere per cercare di oltrepassare la soglia della realtà e tentare di esplorare il mondo dell’essere spirituale.
Ora c’è da chiarire, caso mai ce ne fosse bisogno, che scrittori come Alberto Moravia, Ennio Flaiano, Giorgio Manganelli, tanto per citare alcuni nomi del lungo elenco di intellettuali ed artisti attratti dal richiamo dell’India, non volevano certo accedere all’esperienza metafisica, ma di sicuro c’era in  loro un bisogno spirituale profondamente sentito. Lo stesso, credo, che ha spinto Luca Buonaguidi, a intraprendere nel 2013 un viaggio di cinque mesi da solo e via terra attraverso Sri Lanka, India, Bhutan,Nepal, Tibet e Kashmir.


Nel solitario silenzio di questo viaggio, come vera e propria testimonianza spirituale, è nata la silloge poetica India – complice il silenzio, edita da Italic nella collana “Rive”.
Nel Dhammapada, il libro più amato del canone buddista ad un certo punto si legge: 
Se non trovi una guida
o degni compagni di viaggio,
va solo,
piuttosto che in compagnia degli inconsapevoli.

Per chi vuole avvertire l’unità di se stesso e dell’essere, la solitudine, ad un certo punto, forse è una scelta necessaria. Ma per Buonaguidi solitudine non significa ritirarsi sul monte e distaccarsi dal mondo intero. No, niente di tutto questo. La sua, piuttosto, è una solitudine in movimento. Una solitudine legata allo scorrere della vita e della natura senza misteri e angosce. E, a questo ritmo del fluire, simile allo scorrere dell’acqua, che ha regole segrete e casuali,  lui non oppone resistenza e sceglie di scorrere insieme ad esso.
Da qui aprirsi alla poesia gli viene naturale come respirare ...
 
“Poesia è guardarsi da vicino/ entro ciò che muove distante/ma anche questo bambino che ride/ nel tramonto indiano.” 
E ancora: “Ho aspettato l'arrivo della poesia/ ma questa mi ha disertato,/ ho parlato di Dio con un passeggero/ ma non l'abbiamo invitato abbastanza,/ho pensato alla strada già percorsa/ ma mi sono commosso/ per quella ancora da fare,/ ho dormito in mezzo agli scarafaggi/ ma il tuo pensiero è farfalla/ che mi vola in fronte/ benedicendo ogni pensiero ulteriore/ quando ho paura di voler tornare/ nel treno che corre e vorrei fermare.// In un attimo poi è arrivata la poesia,/ Dio ha preso posto vicino/ e il treno si è fermato.// Ancora, divento cammino di ogni sogno, paura, sospiro. 

Buonaguidi, scegliendo il cammino, ha compreso che si può essere veramente liberi solo se si ha una vera consapevolezza della libertà e, paradossalmente, è solo la prigione che ti fa apprezzare realmente tutto il valore della libertà. Dice Hui- Neng, maestro zen: “ad ogni domanda che ti si pone rispondi nei termini del suo opposto.” Questo perché il dolore e la gioia, la serenità e l’angoscia, la morte e la vita sono inseparabili, interdipendenti, “scambievolmente generati”. Nulla esisterebbe senza il suo contrario.
Il cammino poetico e umano di Luca Buonaguidi è stato quasi sicuramente un modo per liberare la sua vita dai pesi e dalle angosce perché come recita ancora il Dhammapada, “l’esistenza è sofferenza. Comprendendo ciò, vai al di là della sofferenza.”
E, alla fine, è solo così che il grondante e trepido silenzio diventa il complice ideale per acquietare il flusso continuo e forsennato dei propri pensieri.

sabato 25 luglio 2015

Carla de Falco



La ragionevole saggezza della poesia di Carla de Falco
di Bonifacio Vincenzi



“L’universo è di vetro. Il tuo cammino è disseminato di schegge che la luce riveste di mille colori riflessi. La trasparenza è ricchezza del giorno. Ma non si può fare astrazione dalla notte. La notte annulla ogni differenza. Mai,  mai sarai stato così solo.”
Si può partire tranquillamente da questa visione di Edmond Jabès per incamminarci, in punta di piedi, in questo mondo fatto di anima e di parole  di Carla de Falco. Pensieri di un istante venuti fuori liberamente, come è caratteristica della poesia, ma che poi restano, nella loro eternità mutevole, vive e silenziose, in uno slancio sempre liberamente a venire, dove l’intimità nella quotidiana lotta, aggiunge sale alle ferite.
Il momento che separa è il titolo di questa silloge poetica di Carla de Falco, edita da Montag. Una silloge forte – scrive Matilde Iaccarino nella prefazione -  in ogni testo che la compone. Ogni verso è una croce piantata sul cuore, ma una croce necessaria perché la poesia, dopo anni di dialoghi autistici con sé stessa, si restituisce al valore dell’impegno civile e lancia messaggi e riflessioni all’uomo, nel suo senso più completo e ampio.”
Tutto questo viene chiarito già nella nota introduttiva che la de Falco sente di rivolgere ai suoi lettori, dove fa una disquisizione sulla parola crisi. “L’etimologia della parola crisi – scrive l’autrice -  è da ricercare nel latino crisis e, prima ancora, nel greco krìno che vuol dire “io separo”. Crisi è dunque un momento che separa un modo di essere da un altro,non necessariamente negativo, ma di sicuro incerto.”
Ed è in questo relativo smarrimento, per tornare alle parole dell’inizio di Jabès, che non si può fare astrazione dalla notte, quella stessa notte che annulla ogni differenza, che isola e spinge verso un’egoistica solitudine tanto necessaria quanto deleteria.

È con la poesia che si può ricominciare, di questo la de Falco  è convinta. D’altronde, poesia, come dice l’etimo, vuol dire fare realtà: l’esperienza poetica parte da un silenzio incontaminato, da un ascolto teso – direbbe Elémire Zolla – che fa emergere le vibrazioni, i ritmi, i polsi delle cose; questi colmano la mente e il cuore del poeta, il quale quindi sente fluire da se stesso, dal suo intimo silenzio, le parole che rivestono i ritmi.


L’apertura alla poesia, da questo punto di vista, quindi, può aiutare moltissimo. Nella vita, le persone e le cose  ormai vivono in serie. Avvolti in una cappa oscura in cui si susseguono orge di parole e di immagini, non irradiano più nulla. Sottili mortificazioni, inesorabili appiattimenti mortificano e spengono sempre più l’umanità nella gente …
“ (…) vibriamo di parole perse nella rete/ all’ombra di sfide vissute come guerre/ scansando sempre ostacoli/ ma senza direzione/ e consumando ansie/ zeppe di cose e voci./ sgomento del pieno, del tanto, del troppo./ bisogno - magari -/ di un mare di vuoto.” (horror pleni)
La ragionevole saggezza della poesia di Carla de Falco obbliga a parlare partendo solo da una visione di verità, per conferire a questo avvento la fermezza e la promessa di una via d’uscita da questo oppressivo percorso labirintico.
E, questo, è il solo modo per tentare di screditare i tempi senza amore che stiamo vivendo e interrompere  lo sterminio delle certezze, dando così alla nostra vita, uno slancio verso le infinite potenzialità dell’essere.

lunedì 20 luglio 2015

Griselda Doka





Griselda Doka, una poetessa migrante
di Bonifacio Vincenzi

"Il titolo dell'opera, Agueil, -  scrive Giuseppe Aletti nella prefazione a questo volume collettivo di poesie - implica un viatico romantico, simbolico ed evocativo: il nome di un vento che trasporti questi componimenti in fuga, verso altri territori, altre culture, lettori, autori. All'interno di Agueil, edito da Aletti Editore,  (chiamato anche Aiguolas, è un vento stagionale, presente soprattutto in primavera, che soffia sulla Cévennes meridionale, accompagna o precede la pioggia o la neve) si susseguono, in ordine alfabetico: Samuele Collovà con Ritagli di luce ed ombre; Giovanni De Gattis con Le parole dell'essere; Griselda Doka con Soglie; Anna Iavarone con Ora non voglio saperlo; Lucia Scavo con Cuore nomade; Martina Sergi con Come diamanti."
Partendo da questa puntualizzazione quanto mai opportuna per dare senso a un titolo tanto affascinante quanto, a primo acchito, oscuro, è importante chiarire che io mi occuperò, in questa breve lettura critica, soltanto di un’opera inserita nel volume e, precisamente, della breve silloge di Griselda Doka, Soglie.


Ma perché ho scelto proprio le poesie della poetessa albanese Griselda Doka? C’entra sicuramente la conoscenza personale, ma non è solo questo che mi ha spinto ad intraprendere questo viaggio nel suo particolare mondo poetico ed umano. Gli  interessi scientifici di Griselda Doka si basano sulla lingua e la letteratura albanese, sulle scienze traduttologiche e sulla letteratura della migrazione, con un focus particolare sugli autori di origine albanese. Ha ideato e portato avanti per due edizioni (la III in corso) il Concorso Internazionale della Poesia della Migrazione “Attraverso l’Italia”, patrocinato dal Dipartimento di Lingue e Scienze dell’Educazione dell’Università della Calabria. E da quest’anno supportato anche dall’Istituto culturale della Calabria “Il Musagete” e dal suo presidente Oreste Bellini.


Sul numero uno di Gennaio/Aprile 2014 della rivista culturale “Confluenze” c’è un saggio di Griselda Doka che si intitola Attraversando l’Italia in poesia –Esperienze di poesia migrante. Questo saggio è fondamentale per comprendere anche la sua poesia.
Perché a un certo punto lo scrittore migrante sceglie di esprimersi in una lingua che non è quella madre? Mi ha colpito molto questa domanda che Griselda Doka  pone ad un certo punto del saggio.  La risposta non è semplice. Negli studi sulle migrazioni vi è un dibattito ancora aperto con diverse scuole di pensiero, tutte molto interessanti, ma che forse trascurano un elemento fondamentale. Ogni persona è un mondo e questo mondo solo la poesia ha il potere di svelarlo. C’è un testo molto bello di Edmond Jabès: Il libro della condivisione. È il libro dell’incontro, del dialogo, dell’affermazione della responsabilità nei confronti degli altri. “Attraverso l’altro, - scrive  Jabès -  abbiamo a che  fare solo con noi stessi. A questo patto la condivisione esiste; e perciò alla radice essa è illusoria. L’altro ci restituisce a noi stessi. E viceversa.” Come a dire, riportando tutto questo alla scelta dello scrittore migrante: io scrivo, mi esprimo, attraverso una lingua che non è la mia per donarmi senza condizioni  all’altro, al diverso da me, affinché lui possa restituirmi a me stesso. E tutto questo perché io accetti ed affronti il mio attuale, insostenibile  disagio …
“Temo di non trovare salvezza/ora che non ho radici/la mia collina sulla valle/è solo una fiaba/ raccontata ai miei figli/in un’altra lingua/temo di diventare/un granello d’oblìo/sale sulla sabbia/estranea come quando rifiuto l’appartenenza/e di essere riconosciuta/soltanto nelle tue parole (…)”

Eccolo il disagio. Protagonista assoluto. Non è la nuova lingua che può allontanarlo. È lì nella parola che forgia i suoi legami di silenzio nel silenzio vivo e abissale di un’appartenenza che rivendica il suo pezzo di anima vagante.


È quasi un grido questo di Griselda e risuona in quella verità che la poesia non riuscirà mai a negare …
“(…) sulla soglia/della mia porta/orme fresche/rintracciano la parola (…) nei sogni/la mia voce/incredula si appanna//sulla soglia/del mio risveglio/occhi nuovi/imboccano l’attesa (…)
Non saranno le orme fresche né quelle spazzate via dal vento di Aiugolas a far ritrovare o perdere la strada del cuore. Tutto è davanti a lei fermo: un richiamo sordo che le gravita attorno. Non può scacciarlo perché non vuole né lo vorrà mai. Lei è un pezzo di anima vagante, viva da un’altra parte. Ma è sempre la grande anima del luogo da dove lei viene che sta sognando, attraverso lei,  di vivere un’esistenza straniera ...
(…) Sono quel breve tragitto/che va dalla torre al mare/il tempo dello scorrere del sangue/che sale/dalla gola sulla testa/in apnea/nessuna voce/nessun fruscìo/nelle orecchie/la legge del nulla/e poi il mesto ritorno (…)
Ha strane leggi il Nulla che gli permettono di aprirsi –  direbbe Blanchot  -  “all’immediato e il lontano, a ciò che è più reale di ogni cosa reale che si dimentica in ogni cosa, il legame che non si può legare e attraverso cui tutto, il tutto, si lega.” Ma sono leggi in cui l’essere tiene in scacco il linguaggio e viceversa. A proposito dell’essere, chiamando ancora in causa Jabès, “ altro non sarebbe che le sue possibilità di essere mediante il linguaggio, e il linguaggio, una possibilità di ottenere uno statuto d’esistenza attraverso l’essere.” Ed è in questa sottile  complicità che si gioca gran parte della vita.

Non c’è libertà nella poesia di Griselda, né vi sono catene in questa parola densa, racchiusa nella propria inquietudine, che richiama, interroga e trascina avanti tutto il peso del proprio passato. C’è altro, una vulnerabilità che si offre alla scoperta, anche con forza, determinazione, ma che non smetterà mai di risarcire il suo debito con la propria appartenenza.

giovedì 16 luglio 2015

Marinella Mascia






Il mistero di un mondo lontano 
nel racconto di  Marinella Mascia
di Bonifacio Vincenzi



“C’è un pozzo  nel cuore selvaggio di un’isola dove la luna piena, passando attraverso un foro, si specchia sul fondo illuminando l’acqua oscura.
Questo appuntamento si rinnova ogni diciotto anni e sei mesi a mezzanotte in punto.
Nessuno sa il perché né quando questo pozzo sia stato costruito, ma il suo fascino giunge intatto fino a noi e ci trasporta nel mistero di un mondo lontano.”


È l’inizio  di La luna nel pozzo, racconto di Marinella Mascia edito da La Riflessione, Cagliari. Un inizio, per certi aspetti significativo. Il richiamo è costituito dall’oscurità e dal mistero, determinazioni esterne che si impongono all’opera. Poi c’è il cuore selvaggio di un’isola: la Sardegna. La vicenda è in attesa di svelarsi attraverso la magica luce dello sguardo. Ma questo inizio accoglie già l’anima del racconto nel cui ambito le leggi della realtà, pur rimanendo intatte,  risentono dei procedimenti tipici del genere fantastico, subendone totalmente il fascino.


Ma non è solo la vicenda qui ad esercitare attrazione. Ci sono i luoghi “dipinti” dalla scrittura di Marinella Mascia. Questi luoghi fanno defluire il testo nella percorribilità di un narrare capace di creare veri momenti di incantata partecipazione. Un esempio lo si può cogliere subito dopo l’inizio …

“Tutto attorno c’è un magnifico oliveto con antichi esemplari dai tronchi contorti che, ad anni alterni, si caricano di olive che nessuno raccoglie mai tanto che non è improbabile, specie dopo un forte vento di maestrale, camminare su un’enorme distesa verde-scuro che ricopre il pianoro come un immenso tappeto.”

La capacità descrittiva è sorprendente. Il lettore ha l’impressione di camminarci su quel tappeto verde-scuro. Non solo. Un’altra caratteristica  della scrittura della Mascia ha a che fare con una strana alchimia che, attraverso la sollecitazione dello sguardo, dà alla parola una capacità olfattiva davvero sorprendente. I flussi degli odori fanno pensare ancora alla bellezza dell’isola. Pare di sentirlo il profumo intenso dell’inula, del lentischio,del ginepro, tanto Marinella Mascia è brava a descriverlo.

Ma torniamo agli avvenimenti. La storia raccontata è di pura fantasia ma la Mascia ha avuto la grande intuizione di ambientarla in un contesto “reale”. Reale è il pozzo sacro di Santa Cristina. Reale è l’appuntamento astrologico che si ripete ogni diciotto anni e sei mesi con la luna e le relative figure leggendarie. “Tutto il resto – spiega l’autrice - è una specie di ordito che mi son presa la licenza di tessere intorno a queste figure.”

Al centro del racconto c’è Anul, una bambina bellissima. Ma la sua estasiante bellezza non rende felice Arian, sua madre. Nel loro villaggio “la bellezza era considerata il dono più prezioso da offrire agli dei, perché la bambina più bella era destinata, una volta raggiunti i diciotto anni e sei mesi, a essere sacrificata alla divinità.”
Riuscirà il cuore grande di una madre a salvare la propria figlia da questo terribile destino? Alla domanda potranno rispondere soltanto gli appassionati lettori di questo avvincente e  suggestivo racconto.

mercoledì 15 luglio 2015

Lorenza Ferrari




Lorenza Ferrari:
un nitido disegno creativo poetico ed umano
di Bonifacio Vincenzi



“Significativa  è l’irradiazione poetica in questo itinerario creativo di Lorenza Ferrari. Significativo e sorprendente il suo ri-viversi sulla pagina, nel verso. E poi c’è il tempo. Equivoco, dondolante. E poi c’è lei che costringe i suoni, gli odori, le immagini e tutto ciò che è passato a riapparire in una estensione poetica  fatta di magica bellezza,  di conversione in amore rigenerato dall’assenza. C’è un orizzonte creato da altri occhi, presenti e assenti,  dove lei completa il suo volo. C’è una rete di riflessi condizionati che viene dal cuore. È poesia tutto ciò? Forse è qualcosa di più. Qualcosa che viene da lontano. Una felicità intima, un fuoco che non  brucia ma che abbaglia,dove tutto, nell’essenza, ritorna  ed è esattamente uguale a quello che si è già vissuto.”

Il rimando evidenzia quello che ho già scritto nella quarta di copertina di questa sorprendente opera prima della poetessa  Lorenza Ferrari.  Sorprendente non soltanto perché la raccolta in questione, Nuova Luna;  edita da Aljon Editrice di Mariagrazia Scarnecchia, è risultata vincitrice, guadagnandosi la relativa pubblicazione, della prima edizione del Premio Letterario Nazionale Massimo Tamburi – accarezza un sogno … , per autori under 35; ma anche per la capacità dell’autrice di presentarsi subito ai suoi lettori con una non comune, trattandosi di un’opera di esordio,  solidità di immagini e di metafore, in un nitido disegno creativo poetico ed umano.
L’aver scritto già una nota che viaggia insieme al testo condiziona e non poco questo mio breve ed ulteriore intervento. Ho già parlato del tempo e di quell’amore rigenerato dall’assenza che insegue i passi nel silenzio, come a voler rivivere quella vita cullata nei ricordi. Ma ci sarebbe ancora molto da dire perché la vita della poesia ogni giorno travalica la sensazione da cui si origina, varca il sentire e il suo esprimersi, va verso l’abbaglio del quotidiano e ritorna a sé, diversa …

Quella che ero/ appesa per aria,/ legata al mio volo di strega pazza,/ venduta ho l’anima pur di averti/ davanti a tutti/ non mi importa,/ fessura/ lama/ punto,/ arco massimo,/ caucciù la mia schiena,/ volere, volere te./ Vendermi al diavolo,/ buttare via il resto./ Inesistenza di un ragionamento./ Salto altissima,/ oltre il non ritorno./ La tua voce lontana ora. (…)”

Tutto è così profondamente cercato, voluto: nessuna esitazione, la poesia vola alta, libera  è l’anima dalla zavorra, non ci sono più pesi a trattenere in  basso. Magia della poesia, quando c’è, quando il respiro è così ampio da farsi urgenza di aderire ai tempi dell’intreccio …

“ (…) Il mio volo si abbatte/ alla tua ricerca./ È un solco, è un arco,/ è un volo in te./ La pretesa folle/ di un volo in me./ Cercami!/ Nell’estrema irruenza dell’arrivo, / la dolcezza delle tue mani./ Non c’è mistero quando ti respiro,/ tutto è chiaro e ti ritrovo … (Diavolessa).

Per amore, certo. E per tutti i panorami che dai quattro occhi guardano dal cuore la vita e il mondo. A sguardi unificati, Lorenza Ferrari questo lo sa bene,  non c’è tempo per la “posa”. Si è straordinariamente vivi e neppure importa di saperlo.