domenica 8 novembre 2015

Sebastiano Gatto





Sebastiano Gatto ovvero la capacità di affrontare poeticamente i temi difficili
di Bonifacio Vincenzi


Quando il 3 agosto del 1914 la Germania dichiara guerra alla Francia, innescando in pratica gli avvenimenti drammatici e sanguinosi della prima guerra mondiale, l’antropologo francese Robert Hertz non godeva ancora di quella fama che dopo la sua morte avrebbe avuto e che lo avrebbe poi  collocato tra i grandi “classici” come Durkheim e Mauss, tanto per fare dei nomi.

Robert Hertz, insieme a molti altri esponenti dell’intelligencija francesce, non si era tirato indietro e si era arruolato per difendere il confine francese dall’attacco dei tedeschi, per poi cadere al fronte all’età di 33 anni, durante “l’inutile e assurdo attacco di  Marcheville: trecento metri di pianura allo scoperto, sotto il fuoco di ben appostati mitraglieri tedeschi, il 13 aprile 1915.”

Ora, qualcuno potrebbe chiedersi, cosa c’entra  Robert Hertz con l’utimo libro di poesia del veneziano Sebastiano Gatto, Voci dal fondo (LietoColle),  una raccolta di poesie inserita nella prestigiosa collana Gialla, diretta da Augusto Pivanti?
Qualcosa c’entra. Robert Hertz ha scritto quello straordinario saggio che è Etude sur la représentation collective de la mort dove dimostra come nelle società primitive l’evento morte venga avvertito come scandalo, disordine, contagio e di come per l’insieme sociale tutto questo rappresenti un rischio perché mette l’individuo non solo di fronte alla sua vulnerabilità e precarietà ma anche alla certezza che l’evento prima o poi riguarderà anche lui.

Che il primitivo sia latente in ognuno di noi è più che noto e si manifesta in alcune reazioni che in poesia Gatto ha colto molto bene; reazioni che oltre alla morte comprendono anche la malattia che generalmente precede l’evento morte e il lutto che è la conseguenza dell’evento.

Prendiamo la poesia “Cioccolatini” inserita nella prima parte del libro e che Gatto ha intitolato Corsie e dove affronta con gran parte delle sue possibili variazioni il tema della malattia:

(…)In pochi accettano i cioccolatini
offerti dai malati:
appena appoggiati sul comodino
si infettano (…)


Questa reazione ben colta da Sebastiano Gatto è quella tipica della paura primitiva che ancora sopravvive nell’individuo e che vede il binomio malattia-morte estremamente contagioso.
La poesia “Al paese di mia madre” inserita nella seconda parte del libro intitolata, appunto, Mia madre, recita così:

Quando c’è un lutto,
in casa del morto si appresta
un banchetto e si apre la porta
al viavai dei saluti.

Il terzo giorno il corteo dei parenti
scavalca per lo meno venti ponti
sui quali il prete poggia
un pane intrecciato e dell’acqua.

È il numero di ponti a stabilire
se facile sarà – per il defunto –
emigrare, da dove è sempre stato,
all’aldilà.

Questa tradizione espressa poeticamente da Sebastiano Gatto riguarda una specie di periodo di tirocinio che l’anima del defunto deve compiere prima di allontanarsi definitivamente dal suo corpo e dal luogo dove è sempre stato. Anche questo con le diverse sfaccettature è stato affrontato da Robert Hertz nel suo saggio antropologico e sociologico sulla morte.


Concludendo bisogna dare merito a Sebastiano Gatto per aver affrontato  temi così difficili come la malattia, la morte e il lutto cogliendone gli aspetti più reconditi ed esprimendoli con intensità e capacità poetiche non comuni.

Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina libro; 2. Robert Hertz; 3. Sebastiano Gatto

sabato 10 ottobre 2015

Franco Liguori


Franco Liguori:
Cariati, la formidabile rocca dei Ruffo e degli Spinelli
di Bonifacio Vincenzi


“Scopo di questo “libro- guida” è quello di far conoscere ai turisti che ogni anno, sempre più numerosi, visitano la nostra cittadina, ma anche agli stessi cariatesi, sia quelli residenti nel comune, sia i tanti altri che vivono fuori per motivi di lavoro, il patrimonio archeologico e storico-artistico di Cariati, finora illustrato e descritto in articoli e saggi sparsi qua e là in giornali e riviste o in sintetici opuscoli e brochures a carattere turistico-culturale, ma mai esposto in una specifica pubblicazione.”

Così Franco Linguori nella puntuale nota introduttiva del suo libro Cariati, la formidabile rocca dei Ruffo e degli Spinelli (Karyàtis, 2013) spiega lo scopo di questo suo prezioso lavoro premiato, tra l’altro, recentemente alla quinta edizione del Premio Letterario Nazionale di Calabria e Basilicata.

Il volume ha una struttura armonica articolata in cinque capitoli, in modo da fornire ai lettori una visione ampia non solo dei beni archeologici e storico-artistici di Cariati, ma anche delle sue principali vicende storiche che secolo dopo secolo hanno caratterizzato quella che è l’attuale anima di questa cittadina calabrese.

I primi quattro capitoli affrontano la realtà storica di Cariati, il suo passato prestigioso sotto la signoria prima dei Ruffo nel XV secolo, successivamente degli Spinelli nel XVI secolo.


Liguori, da storico serio e scrupoloso qual è, quindi, ci parla di questa suggestiva cittadina, della sua posizione geografica, del nome, degli aspetti archeologici, per poi soffermarsi nei lineamenti storici, dal Medio Evo ai giorni nostri; senza tralasciare il patrimonio storico- architettonico e quello chiesastico.

Per me che mi occupo di letteratura non posso non ammettere di essere stato letteralmente affascinato dal quinto capitolo di questa interessante pubblicazione di Liguori: “Cariati nella Letteratura di viaggio e nella pubblicistica turistico-culturale”.

“Nella seconda metà del XVIII secolo – scrive Franco Liguori nel quinto capitolo – col mutare, su scala internazionale, delle condizioni socio-culturali, si cominciò ad avvertire, prepotente, in tutta la cultura europea, il fascino del Sud e della Calabria in particolare, a quell’epoca ancora selvaggia e misteriosa. Una folta schiera di viaggiatori stranieri, quasi sempre giovani aristocratici desiderosi di completare la loro formazione, esponenti della nuova cultura europea, in cui L’Europa si riconosceva e si identificava, scese nelle regioni del nostro Mezzogiorno, e, molti di loro si diressero verso i nostri paesi di Calabria, visitandoli con grande curiosità ed interesse e lasciandone memorabili descrizioni nei loro diari di viaggio. Sono i cosiddetti Viaggiatori del Grand Tour che, giungendo in Calabria, si trovarono in una regione che li affascinò col suo cuore segreto di antica civiltà classica, nascosto sotto uno strato di rustica selvatichezza.”


Cariati, grazie alla sua felice e strategica posizione geografica molto spesso era inserita negli itinerari di questi viaggiatori. Johann Von Riedesel, Henry Swinburne, Jean Caude Richard, Richard Keppell Craven, sono solo alcuni dei tanti viaggiatori stranieri che sono stati affascinati da  questa cittadina calabrese.

Il libro  di Franco Liguori, corredato di un gran numero di foto a colori, merita di essere sicuramente  letto e conservato gelosamente nella personale biblioteca non solo dei cariatesi, ma anche di tutti coloro che amano la nostra Calabria.


Immagini in ordine di apparizione: 1.Copertina del libro, 2. Franco Liguori  3. Ritratto di Richard Keppell Craven

venerdì 25 settembre 2015

GIALLA









Gialla:
Un progetto importante di LietoColle e Pordenonelegge     

di Bonifacio Vincenzi



Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.”

Questa è una delle tanti frasi memorabili pronunciate dal professor John Keating ne L’attimo fuggente nella memorabile interpretazione di Robin Williams.






E ancora, sempre da L’attimo fuggente:

... Come ha detto Frost: "Due strade trovai nel bosco e io, io scelsi quella meno battuta. Ed è per questo che sono diverso."

Alla fine, però, quelli che sono diversi, quelli che hanno passioni sono persone semplici, non fanno solo proclami, non portano solo a passeggio il loro ego, ma creano costantemente, rendendo vivo ciò che sentono.

Mi ha molto colpito un’immagine colta dal sito di LietoColle: un albero possente pieni di frutti e i frutti sono i libri. Mi ha colpito perché ho sempre pensato che le cose importanti che la razza umana, nonostante ci sia un martellante tentativo occulto di rincretinirla completamente, riesce ancora a fare, sono un po’ come tante piantine piantate in un terreno fertile accudite giorno per giorno con amore, costanza, e senso di responsabilità. E queste piantine crescono fino a diventare alberi possenti. Fino a diventare punto di riferimento.



Penso a questi alberi quando penso al lavoro di LietoColle, quando penso a questa splendida realtà che è diventata Pordenonelegge.

E quando le anime di LietoColle e Pordenonelegge decidono di unirsi in un progetto dedicato esclusivamente alla Poesia e ai Giovani, bene, allora, bisogna accogliere tutto questo con entusiasmo ed emozione, anche esagerata, perché significa che per questa umanità tartassata e umiliata giorno dopo giorno, c’è ancora speranza.

Vasile Ghica ha scritto una cosa che mi spaventa tantissimo: “La più grande tragedia avrà inizio quando i giovani non vorranno più cambiare il mondo.”

Vogliamo forse negare che tutto questo  sta già accadendo?

Due strade trovai nel bosco e io, io scelsi quella meno battuta. Ed è per questo che sono diverso. In un mondo in cui impera la cultura della scorciatoia, del tutto e subito e ad ogni costo, questo pensiero di Frost perde inevitabilmente il suo fascino, la sua forza, il suo significato.


Ai giovani ormai si è tolto il futuro, loro lottano per sopravvivere e chi lotta per sopravvivere non ha più la forza per cambiare il mondo.

Ecco perché la Collana Gialla “èPoesia”, il nuovo progetto editoriale di pordenonelegge e Lieto Colle, assume un valore simbolico fortissimo.

Due strade – tracciate da molti anni di passione per la poesia – si incrociano e si uniscono in questa collana, per comporre le energie di più luoghi e diverse forme di comunicazione: LietoColle e pordenonelegge condividono lo scopo di scegliere, promuovere e diffondere l’opera di alcuni autori già conosciuti da chi segue la vicenda attuale della poesia, accompagnandoli nell’edizione di una loro prova significativa. LietoColle cura la proposta del libro nella sua forma canonica, mentre pordenonelegge cura la versione elettronica, con l’obiettivo di moltiplicare le occasioni di attenzione e di dialogo su quattro opere di poesia scelte, per ogni anno solare, tra le esperienze di rilievo di nuovi autori di interesse.




Così Michelangelo Camelliti (LietoColle) e Gian Mario Villalta (pordenonelegge) presentano ogni numero della collana gialla pordenonelegge.it. Collana che è  una splendida realtà avendo già accolto opere di poesia di giovani autori come Tommaso Di Dio, Clery Celeste, Giulio Viano, Giulia Rusconi, Sebastiano Gatto, Maddalena Lotter, Daniele Mencarelli, Greta Rosso.




Un altro dato significativo che vale la pena sottolineare è che il Progetto Gialla di LietoColle e Pordenonelegge è stato affidato ad Augusto Pivanti un uomo e un poeta che da anni lavora a stretto gomito con Michelangelo Camelliti e LietoColle. Pivanti non è certo uno che si danna l’anima per apparire eppure ha scritto una decina di raccolte di poesie ed ha un ruolo prezioso nella casa editrice di Camelliti. Un membro della razza umana, insomma, che assapora ogni giorno parole e linguaggio, nutrendosi di poesia, vivendo ciò che ama con passione e umiltà, doti, queste, assai rare.



Immagini in ordine di apparizione: 1. Immagine promozionale del Progetto gialla ,2. Una scena del film L’attimo fuggente  3. L’albero sul sito di LietoColle, 4. Gian Mario Villalta, 5. Michelangelo Camelliti in Calabria tra Bonifacio Vincenzi (a sinistra, di spalle) e Oreste Bellini, 6. Augusto Pivanti


martedì 15 settembre 2015

Antonella Monti








Antonella Monti:
autoritratto in versi
di Bonifacio Vincenzi


"Ciò che plasma la nostra vita  e la nostra natura – ha scritto Georg Groddeck -  non è solo il contenuto della coscienza, ma, in grado assai maggiore, il nostro inconscio. Fra la coscienza e l’inconscio c’è un setaccio, e sopra, nella coscienza, rimangono solo gli oggetti grossi, mentre la sabbia per il mortaio della vita  cade giù in profondità; sopra rimane solo la crusca, mentre la farina per il pane della vita, si raccoglie in basso, nell’inconscio.”

Leggendo la poesia di Antonella Monti in Miserere nostri (LietoColle) trovo che questa affermazione di GroddecK sia, per certi aspetti, molto vicina al ritratto  che in poesia la Monti abbozza di sé:

Sono diabolica, nera come la notte/ rossa come l’inferno, immensa come/ il pentimento fino alla volta del cielo.

In questi pochi versi c’è l’anima di una donna continuamente in lotta con se stessa dove, da una parte, c’è ciò che lei profondamente è, dall’altra, invece, ciò che lei fa, che quasi mai la rappresenta, almeno, non totalmente.
La sua sensibilità, poi, non le permette quella grande impostura necessaria per ben mascherare un ego instabile e limitato. Da qui la discesa in una sensazione di solitudine è inevitabile: “Solitudine, eterna compagna/ a volte in vacanza/ ma sempre col biglietto/ di ritorno in tasca. (…)



C’è un dato di fatto, però: la sua anima in versi piace. Perché piace? Conviene non rischiare di rispondere concretamente a questa domanda perché quest’anima in sé non è mai definibile se non in un sentire che predispone ad una sensazione, piacevole o spiacevole, quella stessa che, dalla carezza di uno sguardo, unisce la voce oscura e silenziosa dell’autrice alla nostra, per un incontro in profondità  più da vivere che da spiegare. E ciò che si vive sulla pagina con Antonella Monti è sicuramente piacevole.

Nella poesia, quindi, la Monti riconquista quella libertà che il mondo spesso le nega e la condivide con il lettore.
Grazie alla poesia un po’ di quella farina del pane della vita, di cui parlava Groddeck, risale sopra, e quella voce che ci parla da lontano arriva con semplicità e naturalezza creando una vicinanza intima, viva, intensa, vera …

Quanto si può essere trasparenti/ quanto trapela, quanto si resta straniti/ quando gli altri colgono/ le tempeste dell’animo./ E quando accade di essere acciuffati/ - così nudi e indifesi – ci si sente meno soli.”

Poesia di immagini, di toni, di sensazioni, di interiorità, di mistero questa di Antonella Monti, piena della sua profondità parlante, in cui cadere non è altro che aprirsi alla possibilità di rialzarsi mentre una grande verità risuona sulla pagina a dire che non c’è domani, se non in questo presente.


venerdì 11 settembre 2015

Alessandro Ramberti




Alessandro Ramberti e lo slancio verso un impossibile accesso a un’esperienza spirituale e metafisica
di Bonifacio Vincenzi




L’occhio non vi accede
L’orecchio non vi accede, né il mentale.
Non sappiamo, non vediamo in che modo
lo si possa insegnare.
Di sicuro questo differisce dal conosciuto.
Questo trae origine dallo sconosciuto.
Lo conosce bene colui che non se ne forma un concetto:
non lo conosce colui che se ne forma un concetto.
Coloro che comprendono, non lo conoscono.
Coloro che non ragionano, lo conoscono.”

(Kena Upanishad, 1-3; 2-3)

Come conoscere l’inconoscibile? Come si può realizzare – per dirla con Patrick Ravignant – ciò che oltrepassa tutte le parole, tutti i concetti, tutte le azioni, e che va oltre l’io e l’altro?
Queste domande, in realtà, sollecitano risposte che non verranno. Ogni ricercatore spirituale questo lo sa  ma non per questo smette di cercare. Sa bene che l’intelletto non ha gli strumenti per risolvere nessuno di questi quesiti, e la questione, per quanto rimanga insoluta, non frena il suo slancio verso un impossibile accesso a un’esperienza spirituale e metafisica.

Ora, avvicinandomi in punta di piedi, a questa raccolta di poesie di Alessandro Ramberti, Orme intangibili (Fara editore) devo necessariamente coglierne l’essenza di un’anima fortemente attratta dal fascino di un percorso alternativo che  aiuti a smettere di venerare la società così per come viene percepita, per tentare di praticare, soprattutto attraverso la poesia, l’arte di concepire se stessi lontani da ogni prigione concettuale, confondendo l’io con l’essere, perché, come precisa il poeta,se cerchi la tua strada è necessario prima che ti perda.“  

Non si deve certo prendere alla lettera questa affermazione perché perdersi qui non significa certo smettere di essere  presenti a se stessi, né è la conseguenza di una definitiva frattura con il mondo ma, piuttosto, come afferma Traherne, acquistare consapevolezza che lo spirito “non agisce da un centro/ su un oggetto distante,/ ma è presente a quanto vede,/ essendo con l’essere che vede.”

Ma questa pare che non sia una conquista semplice e la domanda che Ramberti si pone (Se il tempo non passasse?) ci obbliga ad ammettere che al di là del qui e adesso non esiste altro e che, il nostro ragionare in termini di itinerario, di traiettoria, come se il tempo fosse lo spazio, è totalmente errato. Il passato non è mai dietro di noi come d’altronde il futuro non è mai davanti a noi. Entrambi non esistono che adesso e  all’infuori del presente, dunque,  non esiste nulla.




Più andiamo avanti nella lettura di questo prezioso libricino più cogliamo, nel tocco ispirato del poeta, l’energia di una parola che cerca di cogliere la pienezza, l’amore, l’eternità. E quando Ramberti scrive che solo l’amore può aiutarci a portare l’anima all’inizio, in realtà, con questa sola affermazione riesce a dire tantissime cose. L’amore che intende Ramberti non è certo quello che nella sua accezione comune indica una richiesta: amare significa soprattutto voler essere amati e rientra, quindi, nella serie dei bisogni che uno ha. L’amore che intende Ramberti è quello senza contrari e senza condizioni; l’amore come dono totale, come sentimento inalterabile senza misura e senza limiti, liberato, finalmente, da ogni egoismo e da ogni possessività.

Ma per essere degni di questo Amore bisogna scrollarsi tutto di dosso, imparare prima – come scrive Eugen Herrigel seguendo l’influsso dello Zen sull’arte del tiro con l’arco- la giusta attesa, staccandosi da se stessi, lasciandosi dietro tutto affinché non rimanga altro che una tensione senza intenzione … (Ho detto poche cose e ciò che ho fatto/ può essere riassunto in un vocabolo/ che esprima la tensione dell’arciere/ il cui bersaglio è interno ed inesatto. (…))


Solo in questo caso potrà avvenire quella cosa suprema e ultima, quella che Herrigel comprende dagli insegnamenti del suo Maestro Zen in cui, nell’arciere, colpo, arco, freccia, bersaglio e Io si intrecciano e, alla fine, il bersaglio da colpire diventa l’arciere stesso. Perché è solo quando l’arciere, pur operando, diventa un immobile centro “l’arte diventa senz’arte, il tiro un non-tiro; l’insegnante ridiventa allievo, il maestro un principiante, la fine un principio e il principio un compimento.”

martedì 1 settembre 2015

Greta Rosso



Greta Rosso nel progetto gialla di LietoColle e pordenonelegge
di Bonifacio Vincenzi




“Due strade – tracciate da molti anni di passione per la poesia – si incrociano e si uniscono in questa collana, per comporre le energie di più luoghi e diverse forme di comunicazione: LietoColle e pordenonelegge condividono lo scopo di scegliere, promuovere e diffondere l’opera di alcuni autori già conosciuti da chi segue la vicenda attuale della poesia, accompagnandoli nell’edizione di una loro prova significativa. LietoColle cura la proposta del libro nella sua forma canonica, mentre pordenonelegge cura la versione elettronica, con l’obiettivo di moltiplicare le occasioni di attenzione e di dialogo su quattro opere di poesia scelte, per ogni anno solare, tra le esperienze di rilievo di nuovi autori di interesse.”

Così Michelangelo Camelliti (LietoColle) e Gian Mario Villalta    (pordenonelegge) presentano ogni numero dell’ormai famosa collana gialla pordenonelegge.it. Passione che corona, connette, spiega ricapitolando, anno dopo anno, l’ineffabilità di una visione positiva e vincente, in un percorso che si ramifica a colpi di  nuove e vitali intuizioni.
Quattro opere ogni anno, quindi, di altrettanti autori che abbiano il dono della Poesia.
Autori come Greta Rosso, la cui  opera è  stata inserita nella prestigiosa collana della quale stiamo parlando.


Che cos’è che caratterizza un complesso sistema di eventi intempestivi? E che cos’è un amore al di fuori della legge?
Iniziare con delle domande. Non c’è modo migliore, credo, per apprestarci a entrare nel giallo di questo Manuale di insolubilità di Greta Rosso (LietoColle, 2015).  Domande che riconducono tutte, per dirla con Elémire Zolla, alla massima interrogazione che è questa: come fa l’essere ad emergere dal nulla?
Ecco l’ultimo e il primo enigma, che solo la poesia osa enunciare, partendo dall’insicura coscienza di chi scrive per arrivare ad una chiarezza intuitiva che spesso non è neppure l’autore a cogliere, ma l’appassionato lettore.

“La poesia è l’unico discorso – scrive  Zolla -  che comporti l’esperienza di un’estasi che offre in se stessa l’esempio di un silenzio che zampilla in parole, perciò è il giusto tramite per dire che la realtà nasce da ogni estasi che illumini la mente, conferendo significato e ordine a una psiche che nell’estasi fa tutt’uno con il cosmo. La poesia è ciò che la cosmogonia descrive: il silenzio che parla, il vuoto che genera il cosmo.”
Questo mi sembra il giusto preambolo per vivere, più che cercare di comprendere, la poesia di Greta Rosso. Ogni altra strada ci allontanerebbe da ciò che lei è e questo non la renderebbe certo infelice, perché, probabilmente, è esattamente ciò che  vuole…
mi somigliano le mie parole/ strette, dismorfofobiche/ nella mischia del mondo/ sempre in lizza per la distruzione/ nessuna fenice, magari compostaggio/ o un tocco di velata mancanza/ a farmi scrivere rifrazioni.”

Greta Rosso non pretende di rivelarsi nell’ambigua lettura che lasci ritornare nel buio di ciò che istintivamente cela, né la sostiene l’ambizione di risorgere dalle sue ceneri, ma il suo aprirsi a questa misteriosa intuizione che è la poesia, le fa in qualche modo comprendere che non è mai il senso a rappresentare l’essere, ma ciò che viene prima del senso, ciò che è vicino e ciò che è lontano, il reale e l’irreale, il sonno e la veglia, ovvero lo specchio del Nulla dove in ogni istante il Tutto si riflette…
Una conseguenza di tutto ciò, è quella di cercare di frantumare, trasformando in lievito l’idea della vita e del mondo, in una dissomiglianza che la porti a dissentire dalle presunte verità, per lasciarsi trascinare da una mobilità tra l’esistere e lo sparire, come rito quotidiano, questa volta consapevole.



Chiaramente c’è tutto questo e l’esatto suo contrario ed è come un grido inascoltato, soprattutto da se stessa, il suo volere che sbatte come onda sugli scogli del mondo visibile …

volevo un viso magro/ da trasporre nell’aria già colma/ di visi e corrugamenti/ volevo che non crescesse nulla/ del mio corpo, che si attenuassero/ le forme, che stazionasse infinitamente/ la quantità di spazio a me assegnata./ volevo un viso per/ la bambina che non era mai bambina,/ una forma di linea per la iena/ che non ero, volevo annientare,/ allucinare, devastare le curve del/ tempo, volevo fermarmi nell’istante,/ epifanica, farmi statua.”

Ma la fermata in sé presuppone la fine di questa mobilità tra l’esistere e lo sparire, presuppone la morte.
Perciò, nonostante gli sforzi, anche lei è costretta a questo procedere per strati,  che ha un suo senso in questa condanna che chiamiamo vita.

Immagini in ordine di apparizione: 1. Copertina del libro, 2. Colpo d’occhio sul pubblico in una manifestazione di pordenonelegge, 3. Foto di Greta Rosso

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mercoledì 12 agosto 2015

Antonella Rizzo






Antonella Rizzo:
Cleopatra, Divina donna d’Inferno
di Bonifacio Vincenzi



“Antonella Rizzo sceglie sempre protagoniste femminili al confine tra storia e mito. Basti ricordare i titoli delle sue precedenti raccolte: Il sonno di Salomè e Confessioni di una giovane eretica. È come se la sua poesia per dispiegare tutta la sua potenza, abbia bisogno di partire da lontano, da molto lontano. Interprete della migliore tradizione orfica, la Rizzo testimonia, anche in questo suo ultimo volume, che alla tavola imbandita della letteratura il posto per una poesia colta, visionaria, intessuta di umori e di valori ancestrali, è sempre quello centrale, il primo, il più importante.”

Questo è quello che afferma Claudio Giovanardi nella prefazione a questo prosimetro di Antonella Rizzo, Cleopatra – Divina donna d’inferno ( Fusibilialibri) e nei fatti che caratterizzano il percorso creativo di questa scrittrice romana di origine calabrese, dobbiamo dire, che ha perfettamente ragione.

La scelta poi della Rizzo di incanalare questo evento creativo in un genere letterario così raro è molto sottile ed è da ascrivere  probabilmente al tentativo di ricreare le condizioni espressive in voga in quel particolare periodo storico. Parliamo, per intenderci, del periodo tolemaico e del breve tempo in cui la regina egizia visse. Cleopatra, infatti, nasce ad Alessandria d’Egitto  nel 69 a.c. e qui poi morirà il 30 a.c.

Per quanto ne sappiamo, la nascita del prosimetro come genere letterario, che alterna in modo equilibrato prosa e poesia, è da collocare proprio in questo particolare periodo storico, e, precisamente,  nell’età cesariana.


Premesso ciò, bisogna dire che nell’immagginario collettivo la figura di Cleopatra non è quella tratteggiata nei libri di storia ma quella raccontata dalla letteratura e dai kolossal cinematografici. Shakespeare, Alfieri, Bernard Shaw, solo per citare qualche nome,  hanno scritto pagine di teatro memorabili su di lei senza contare che esiste una filmografia sul personaggio che parte dal 1899 che arriva fino ai giorni nostri e che sicuramente è destinata a continuare anche in futuro. Questo per dire che tutto quello che si poteva scrivere  di vero e di inventato sul personaggio è stato fatto ed ogni nuovo lavoro fatica e anche molto a mantenere caratteristiche vagamente originali.

La domanda da porsi dunque non può essere che questa: la Cleopatra di Antonella Rizzo che cosa presenta di nuovo?

La Rizzo, partendo da una citazione tratta dall’Inferno di Dante (“peccator carnali, / che la ragione sommettono al talento”), sente poi il bisogno di spiegare, in qualche modo, ai suoi lettori le ragioni della sua scelta:

Alla sua straordinaria complessità si rivolge la mia spontanea lettura del suo vissuto, a quella dicotomia intelletto-cuore di cui si tenta invano la separazione come garanzia di controllo delle azioni umane; augurandomi che si esaurisca l’immagine di una Donna protagonista minore di un morboso connubio sesso e potere.

A questo connubio bisogna aggiungere sicuramente la morte che nella Roma caput mundi raramente, almeno per quelli che direttamente o indirettamente rappresentavano il potere, avveniva per cause naturali. Complotti, assassinii, suicidii  in quel periodo non davano tregua. Un vero e proprio mattatoio ad orario continuato.

È chiaro che il destino di Cleopatra per il suo passionale rapporto prima con Cesare, poi con Marco Antonio, non poteva non intrecciarsi con le vicende della Roma caput mundi, con il finale che tutti conosciamo.


… Il mio rapporto con Cesare aveva del soprannaturale e del destinato, perché mai essere umano aveva rifiutato il mio regale ratto dell’anima e si era imposto una severità, una forza da risultare impenetrabile alle malie. Era lui che aveva seviziato il mio spirito indomabile con fuoco e flagelli. Avrebbe pagato con la vita il talamo di miele che gli preparavo al cospetto di Horus benevolo. I suoi Dei guardavano con sospetto la nostra unione e maledicevano il nostro palazzo con improvvisi venti bollenti che asciugavano la fertilità della terra e impaurivano gravide e vecchie. Chiunque sarebbe venuto dopo avrebbe scontato la maledizione degli Dei adirati e a nulla sarebbero valsi i bracieri arsi in loro onore e le bestie sacrificate. Nessun sangue placava la loro ira. Solo la morte ci avrebbe ricongiunto con la loro benevolenza.”

Una Cleopatra, questa, che parla attraverso la voce della Rizzo, già conscia del suo destino, viva nella passione del suo rapporto d’amore con Cesare, che appare qui sotto una luce nuova, più vicino, dal punto di vista di intensità, a quello con Marco Antonio tanto esaltato dalla Letteratura e dal Cinema.


Un testo davvero importante questo di Antonella Rizzo, un prosimetro da leggere o magari anche da ascoltare, seduti sulla comoda poltrona di un teatro, luogo sicuramente congeniale per accogliere  i protagonisti di questa vicenda rivissuta sulla pagina da una scrittrice sicuramente di talento.

martedì 11 agosto 2015

Miriam Bruni







Miriam Bruni:
un respiro d’amore e di Poesia
di Bonifacio Vincenzi

“Chi odia/ la pena/ non ami”, ammonisce Miriam Bruni nella silloge Cristalli, pubblicata da BookSprint Edizioni. Ed è un’affermazione saggia la sua perché il limite dell’amore è in questo non riuscirsi a fondere l’uno nell’altra. Al massimo, come scrive Jabès, un amore lo si può condividere perché, “vivere in due la medesima vita non è che vivere nella sua pienezza la nostra parte d’amore  e di vita. Attraverso l’altro, abbiamo a che fare solo con noi stessi. A questo patto la condivisione esiste; e perciò alla radice essa è illusoria. L’altro ci restituisce a noi stessi. E viceversa.”
Da qui il percorso diventa arduo … “Alta/procedo/tra stanchezze e slanci// Tra sterpi, rovi/e limpidi tramonti …”


E tutto questo per continuare a indagare sull’amore, per continuare a credere che il movimento delle emozioni, presto o tardi,  possa approdare in un equilibrio di tempi consolidati, superando definitivamente i nuovi dubbi e le nuove illusioni.

Ma l’unico approdo sicuro è nella Poesia. Silenziosa e solidale la poesia porta in dono la pace ed attimi di vera e autentica gioia.

Miriam Bruni sa che c’è magia nella sua voce che canta, ma c’è anche una chiarezza intuitiva che  che le fa dire, dal profondo mistero del suo essere donna, che quella Luce che ogni giorno sposa il Mondo, in modo così naturale e disinteressato, sarebbe un buon esempio da seguire per superare gli insignificanti conflitti che continuamente condizionano i rapporti umani in amore e  al di fuori dell’amore ...

Il mio problema/è non avere/confini//Sentire il mondo/allacciato
ai miei fianchi//Le cascate/ricolme/delle mie risate//E i deserti/ angustiati/ dal mio pianto.”


Cascate e deserto, risate e pianto in questa danza di contrari in cui le energie vitali trovano e dispensano gioia solo nel cuore della Poesia.

sabato 8 agosto 2015

Giuseppe Napolitano







Giuseppe Napolitano:
vivere una vita … “a repentaglio”
di Bonifacio Vincenzi



“Ora so che sapevo. La mia paura di leggere Nietzsche era forse quella di scoprirmi vicino un insopportabile vicino. Perché mi sono sempre sentito un po' super, un po' più su di tanti altri; proprio perché non credo di sapere molto e vedo intorno tanta sfacciata sicurezza, e al tempo stesso, però, non so fare a me­no dell'altro. Mi è comunque insop­portabile pensare di essere "nel deserto" fra la gente.”

Dei venti brani che compongono l’ouverture di A repentaglio, la recente raccolta di poesia di Giuseppe Napolitano, pubblicata dalla Casa Editrice L’Arcolaio, sicuramente questo è quello, a mio avviso, che più lo rappresenta.

Il mistero e il miracolo della scrittura è in questa sincerità di fondo che si riversa sulla pagina manifestando, attraverso questi segni che parlano, tutto ciò che colui che scrive è, o, almeno, ciò che la vita gli ha consentito di essere.

Un po’ come scriveva Edmond Jabès:” io esisto perché sono stato plasmato dal meglio e dal peggio, da tutto quello che ho amato o rifuggito; da tutto quello che ho acquisito o perduto, secondo dopo secondo, dallo scorrere lento della vita.”

Foglio bianco senza risposta/ lo specchio ci dice ogni giorno/ se abbiamo o no la faccia/pronta per l'uso pronta a testimone/di verità indicibili altrimenti –//passa per mille frammenti la vita/e si frange in parole – lo specchio/ raccoglie e compone quel dire/che a fatica cercava la via//per esprimersi ed essere voce/ che non ha più domande da fare:/la poesia è risposta di vita.” (Trittico dello specchio)


Ma i poeti, come giustamente scrive Ida Di Ianni nella postfazione, “prima che specchio di se stessi, sono quello della realtà di cui assorbono rumori ed umori …” Quella realtà sempre più liquida che scorre velocemente …

“ (…)È vero siamo noi determinanti /nello scorrere – se anche rallentiamo/ il ritmo – del tempo che viviamo//Il tempo è la misura dell'esistere/non altrimenti calcolabile/– il modo/ di godere o sciupare il nostro tempo// C'è quello che sentiamo nostro quando/ ce ne accorgiamo e appena sta passando/ mentre aspettiamo un incontro di fortuna//C'è un tempo grande che tutti ci contiene/ ed è la somma semplice dei tempi/di tutti che viviamo/ – e andiamo avanti.” (Misura)

Forse, alla fine, se per Napolitano la certezza nella vita è un bisogno per acquietare inquietudini, paure e dubbi mai risolti, l’azzardo, al contrario, non aggira mai la verità, ma l’affronta, rendendo le relative conseguenze, frutto della propria azione e, di conseguenza, il prezzo eventualmente da pagare, rientra comunque in una scelta volontaria e mai passiva.