Giacinta Caruso:
misteri e delitti
nella Francia della fine del 1800
di Bonifacio Vincenzi
Dimmi
che libri leggi e ti dirò chi sei. Pare proprio che dalla
personale biblioteca di una persona si possa risalire al suo carattere. E che i
libri che egli raccoglie e conserva
siano l’intima confessione di ciò che ama e di ciò che è. Ma è proprio così? Vogliamo
fare un test sulla mia personale biblioteca? Io
sono cresciuto con pane, spada, miniera e delitti. Mi spiego. Gli autori che
sono presenti con più opere nel mio percorso di lettura sono Alexandre Dumas (
parlo del padre naturalmente, il figlio, nonostante La signora delle camelie, con un padre così famoso, aveva ben poche
speranze di “esistere”), Archibald Joseph Cronin e Georges Simenon. Cappa e
spada nei romanzi di Dumas, le miniere di carbone in quelli di Cronin e almeno
un delitto in ogni romanzo di Simenon con o senza Maigret. Dei tre, a parte
Simenon ( che gode ancora di una certa stima nell’ambiente intellettuale), gli
altri due, per uno come me che ha diretto due riviste di letteratura italiana,
non sono proprio autori di cui andare fieri. Perché? Non saprei dirlo anche
perché questa questione, a mio avviso, non ha ragione di esistere. Per me, che
poi ho scoperto autori geniali come Fëdor Dostoevskij, Thomas Mann, Marcel
Proust, Italo Calvino, tanto per fare dei nomi, esistono due tipi di lettura:
una che definirei, in discesa libera,
l’altra, in salita. E, spesso, l’una
non pregiudica l’altra. Mi spiego. Considero letture in discesa libera i libri di
quegli autori che hanno la capacità di regalare a propri lettori momenti di
vero e piacevole relax, attraverso una scrittura lineare, sciolta, veloce,
avvincente. I tre moschettieri di
Alexandre Dumas sono un tipico esempio di lettura in discesa libera.
Sono più di settecento pagine che l’appassionato
lettore letteralmente si divora. Quelli, invece, che amano le letture in salita, sono quei lettori che leggono
con profitto. E per leggere con profitto – come direbbe G. S. Marden – occorre
avere bene in mente tre cose: intenzione,
attenzione e ritentiva. Caratteristiche tipiche, queste, che sono fondamentale
per ogni scalatore deciso a conquistare la vetta più alta di una montagna.
Personalmente mi sono sentito un po’ come Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, (gli scalatori, per intenderci, che hanno conquistato
per primi nel 1954 il K2) quando sono riuscito a espugnare la fine del
romanzo di James Joyce Ulysses, per me uno dei libri più ostici di una
lettura cosiddetta in salita.
Ora,
tutto questo preambolo, cosa c’entra con La camera ardente di Giacinta
Caruso? C’entra, e anche molto.
In
una intervista Giacinta Caruso ha dichiarato:
“Quando mi chiedono perché
hai scritto La Camera
Ardente posso solo rispondere che era inevitabile. Appena imparato a
leggere, a Natale mi regalarono un’edizione per bambini de I tre
moschettieri. Lo iniziai a gennaio dell’anno successivo. Fu amore a prima
vista. Ho un ricordo vivissimo di me seduta accanto al cammino che mi perdo
dietro le avventure di D’Artagnan e Milady.”
Ecco
dunque l’antefatto genetico di questo avvincente romanzo di Giacinta Caruso,
edito recentemente da Panesi Edizioni. E basta addentrarsi nello scenario
disegnato abilmente dall’autrice già delle prime pagine. per rendersi conto
della straordinaria vicinanza del romanzo della Caruso con il romanzo di Dumas uscito a puntate su “Le
Siécle” nel 1844.
Prendiamo
l’ambientazione storica del romanzo di Dumas. Parigi 1625. Il giovane guascogne
Charles d’Artagnan arriva in città per cercare di entrare nei moschettieri di
re Luigi XIII.
Spostiamoci
ora nel romanzo della Caruso. L’ambientazione storica è quasi uguale. Parigi
1680. Lady Edwina ha appena sposato il marchese di Peyrac, un incorreggibile
libertino, sempre alla ricerca di piaceri proibiti. La nobildonna, dopo esser
rimasta vedova, è stata costretta alle nuove nozze dal cugino, agente in
Francia del duca di Buckingham. Poi una donna viene assassinata. Il delitto
sembra rimanere irrisolto. Da qui parte la vicenda e ci rendiamo subito conto
di come la scrittura della Caruso sia avvincente. Come il grande maestro Dumas
la Caruso mette in scena intrighi, colpi di scena, suspence, con in più una discreta dose di erotismo nel ritmo
serrato di una narrazione che si apre ad una lettura decisamente in discesa libera. C’è una differenza,
però, ed è che la Caruso a scrivere questo romanzo è da sola. Dumas, invece, è certo ormai che da solo a scrivere gran
parte dei suoi libri non lo è stato mai. D’altronde sarebbe umanamente
impossibile per chiunque scrivere in una trentina d’anni circa seicento libri
di centinaia e centinaia di pagine, senza l’aiuto di un buon numero di
“collaboratori”.
Avviandomi alla
conclusione, devo dire che il personaggio di questo romanzo della Caruso che ho
amato di più è il Commissario Savarin, un uomo paziente e di buon carattere. Mi
ha colpito tantissimo l’idea che la scrittrice ha del suo personaggio:
“Se penso a Savarin, - avverte la Caruso - nella mia mente compare il Gérard Depardieu di
qualche anno fa, quando non aveva ancora assunto l’aspetto imponente di oggi.
Insomma, vedo un uomo di mezz’età dai fluenti capelli rossi, di carattere
schivo e malinconico che ha una passione per l’alchimia e nutre un amore senza
speranza per la cugina, che gli ha preferito il velo.”
È bene non aggiungere altro. Tutto il resto,
chi lo vorrà, potrà scoprirlo attraverso la lettura di questo avvincente romanzo
storico di Giacinta Caruso.
Immagini in ordine di apparizione: copertina del libro, Alexandre
Dumas, tipica immagine dei Tre moschettieri.
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