venerdì 11 settembre 2015

Alessandro Ramberti




Alessandro Ramberti e lo slancio verso un impossibile accesso a un’esperienza spirituale e metafisica
di Bonifacio Vincenzi




L’occhio non vi accede
L’orecchio non vi accede, né il mentale.
Non sappiamo, non vediamo in che modo
lo si possa insegnare.
Di sicuro questo differisce dal conosciuto.
Questo trae origine dallo sconosciuto.
Lo conosce bene colui che non se ne forma un concetto:
non lo conosce colui che se ne forma un concetto.
Coloro che comprendono, non lo conoscono.
Coloro che non ragionano, lo conoscono.”

(Kena Upanishad, 1-3; 2-3)

Come conoscere l’inconoscibile? Come si può realizzare – per dirla con Patrick Ravignant – ciò che oltrepassa tutte le parole, tutti i concetti, tutte le azioni, e che va oltre l’io e l’altro?
Queste domande, in realtà, sollecitano risposte che non verranno. Ogni ricercatore spirituale questo lo sa  ma non per questo smette di cercare. Sa bene che l’intelletto non ha gli strumenti per risolvere nessuno di questi quesiti, e la questione, per quanto rimanga insoluta, non frena il suo slancio verso un impossibile accesso a un’esperienza spirituale e metafisica.

Ora, avvicinandomi in punta di piedi, a questa raccolta di poesie di Alessandro Ramberti, Orme intangibili (Fara editore) devo necessariamente coglierne l’essenza di un’anima fortemente attratta dal fascino di un percorso alternativo che  aiuti a smettere di venerare la società così per come viene percepita, per tentare di praticare, soprattutto attraverso la poesia, l’arte di concepire se stessi lontani da ogni prigione concettuale, confondendo l’io con l’essere, perché, come precisa il poeta,se cerchi la tua strada è necessario prima che ti perda.“  

Non si deve certo prendere alla lettera questa affermazione perché perdersi qui non significa certo smettere di essere  presenti a se stessi, né è la conseguenza di una definitiva frattura con il mondo ma, piuttosto, come afferma Traherne, acquistare consapevolezza che lo spirito “non agisce da un centro/ su un oggetto distante,/ ma è presente a quanto vede,/ essendo con l’essere che vede.”

Ma questa pare che non sia una conquista semplice e la domanda che Ramberti si pone (Se il tempo non passasse?) ci obbliga ad ammettere che al di là del qui e adesso non esiste altro e che, il nostro ragionare in termini di itinerario, di traiettoria, come se il tempo fosse lo spazio, è totalmente errato. Il passato non è mai dietro di noi come d’altronde il futuro non è mai davanti a noi. Entrambi non esistono che adesso e  all’infuori del presente, dunque,  non esiste nulla.




Più andiamo avanti nella lettura di questo prezioso libricino più cogliamo, nel tocco ispirato del poeta, l’energia di una parola che cerca di cogliere la pienezza, l’amore, l’eternità. E quando Ramberti scrive che solo l’amore può aiutarci a portare l’anima all’inizio, in realtà, con questa sola affermazione riesce a dire tantissime cose. L’amore che intende Ramberti non è certo quello che nella sua accezione comune indica una richiesta: amare significa soprattutto voler essere amati e rientra, quindi, nella serie dei bisogni che uno ha. L’amore che intende Ramberti è quello senza contrari e senza condizioni; l’amore come dono totale, come sentimento inalterabile senza misura e senza limiti, liberato, finalmente, da ogni egoismo e da ogni possessività.

Ma per essere degni di questo Amore bisogna scrollarsi tutto di dosso, imparare prima – come scrive Eugen Herrigel seguendo l’influsso dello Zen sull’arte del tiro con l’arco- la giusta attesa, staccandosi da se stessi, lasciandosi dietro tutto affinché non rimanga altro che una tensione senza intenzione … (Ho detto poche cose e ciò che ho fatto/ può essere riassunto in un vocabolo/ che esprima la tensione dell’arciere/ il cui bersaglio è interno ed inesatto. (…))


Solo in questo caso potrà avvenire quella cosa suprema e ultima, quella che Herrigel comprende dagli insegnamenti del suo Maestro Zen in cui, nell’arciere, colpo, arco, freccia, bersaglio e Io si intrecciano e, alla fine, il bersaglio da colpire diventa l’arciere stesso. Perché è solo quando l’arciere, pur operando, diventa un immobile centro “l’arte diventa senz’arte, il tiro un non-tiro; l’insegnante ridiventa allievo, il maestro un principiante, la fine un principio e il principio un compimento.”

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